Lamborghini Countach: a biobenzina si scatena

Lamborghini Countach: a biobenzina si scatena

Mi sfilo il casco e tiro un lungo respiro, il primo da venticinque minuti a questa parte. Sto cercando di capire se sia più sudato o soddisfatto, un quesito arduo visto che ci sono 38 gradi (percepiti 97…) e ho appena finito un turno a Monza con una Lamborghini Countach 5000 Quattrovalvole, un capolavoro italiano del 1987. Ok, forse sono più soddisfatto che sudato.

WOW, CHE PARTERRE! Fino a tre giorni prima l’unico motore che avevo in previsione di accendere domenica era il 50 cc del mio decespugliatore, ma un giro di chiamate e l’usuale gentilezza dell’Asi mi hanno portato al Mimo 2025, con in mano le chiavi della supercar anni ’80. Sono sicuro che il mio giardino se ne farà una ragione. I box prenotati dall’Automotoclub Storico Italiano non hanno nulla da invidiare alle supercar e hypercar che occupano il paddock dell’autodromo di Monza: in esposizione troviamo due splendide F1 d’epoca (la Surtess TS 19 del 1976 e la Arrows A1 del 1978), una March 712 M F2, una Brabham BT 41, una De Tomaso Pantera Gr. 4, la ‘Batmobile’ (una Bmw CSL Gr. 2) e una Iso Grifo A3C accanto a un’affascinante Fulvia Sport Zagato Competizione.

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120 LITRI DI BIOBENZINA, GRAZIE. Le vere star tuttavia sono state la giallissima Lancia Stratos HF del ’75 e la “mia” Countach 5000 QV, rese ancor più interessanti da un dettaglio di non poco conto: in questi tre giorni i loro serbatoi sono stati riempiti esclusivamente con biocarburante di seconda generazione, precisamente il Sustain Classic Super 80 della inglese Coryton Advanced Fuels. Gli idrocarburi della benzina tradizionale si ottengono distillando petrolio grezzo estrapolato dal fondo marino o dai giacimenti sotterranei, quelli delle biobenzine sono di origine vegetale, catturati dagli organismi di madre natura e trasformati in cellulosa e zuccheri dalla quale si ricava – tramite fermentazione – bioetanolo; un ultimo passaggio ed ecco che saltano fuori gli idrocarburi necessari, a questo punto il bioetanolo sparisce quasi completamente (meno dello 0,5%).

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PIÙ SOSTENIBILE, SENZA COMPROMESSI. Il Sustain Classic 80 emette 2,3 kg di CO2 per ogni litro bruciato, esattamente come la classica benzina. Quindi tutta questa solfa per una mezza fregatura? Nossignori, perché per produrre ciascun litro di biocarburante si sono sottratte quantità ingenti di CO2 all’atmosfera: le piante la assorbono, e una volta diventate utili al buon ciclo “suck-squeeze-bang-blow” rilasciano l’anidride carbonica immagazzinata in precedenza. Il risultato è un abbattimento della CO2 dell’80%, il che significa che potrei svuotare il serbatoio della Countach facendo fare faville al V12 inquinando meno, ma molto meno, di una Tesla o una BYD. Il Sustain Classic 80 si può mischiare alla normale benzina e non richiede alcuna modifica al motore. Inoltre, se siete preoccupati che utilizzandolo la vostra Porsche 996 GT2 possa diventare una 924 aspirata tirate pure un sospiro di sollievo: svariati test sui rulli hanno evidenziato medesimi valori di potenza e coppia, a volte persino un lieve miglioramento.

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UN RISVEGLIO FRAGOROSO. L’unico difetto al momento è il costo, circa il triplo della benzina normale, ma tra economie di scala, produzioni più efficienti e aumento della domanda siamo convinti che nei prossimi anni la Coryton scenderà a prezzi più appetibili per noi mortali. È questo il futuro che auspichiamo per l’endotermico. A tal proposito… ho in mano una piccola chiave con scritto Countach e mi pare scortese tenerla separata dal blocchetto d’accensione, dopotutto sono fatti per stare insieme. Il motorino d’avviamento gira a lungo, tossicchia, vibra e tutt’a un tratto i dodici cilindri in sequenza si risvegliano con un ruggito fragoroso. Niente filtri, niente amplificatori, niente deprimenti ‘soft limiter’, pura meccanica che si scatena per appagare i timpani di chi ascolta.

TI CHIEDE DI ESSERE FORTE. La Countach della collezione Asi-Bertone è un rubino raro, meno di 3.000 chilometri all’attivo, conservata in maniera eccezionale e in versione 5000 QV: linea ancora più arrogante di quella dell’auto disegnata da Marcello Gandini all’inizio degli anni ’70 e motore 5.2 V12 a carburatori da 455 cavalli, un razzo nucleare per l’epoca. I primi metri nel paddock sono tutti di conoscenza, tento di familiarizzare con pedaliera, cambio e posizione di guida, solo che loro non vogliono familiarizzare con me. Le manovre sono facili quanto un cubo di Rubik a dodici facce, l’acceleratore dà segni di vita dopo ottantasette chili di pressione e la visibilità posteriore è inesistente grazie a quel vistoso boomerang che funge da alettone. In retromarcia, meglio aprire la spettacolare portiera verticale e guardarsi alle spalle sedendosi sul brancardo (sentendosi irrimediabilmente fighissimi).

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SCALZO… A METÀ. Un’altra questione spinosa riguarda la mia scarpa destra: deve sparire. Indosso delle sneakers in tela che adoro per guidare, peccato che premendo l’acceleratore l’interno del piede tocchi anche il freno, così mi ritrovo per metà scalzo sperando di avere più chance per punta tacco e doppiette. Non mi ricapiterà facilmente (nemmeno difficilmente) di provare una Countach a Monza e voglio poter guidare nel miglior modo possibile, o perlomeno non sembrare goffo. Tempo di interrogarmi sui freni e sul loro stato e vengo chiamato per il turno, infilo il casco e il mio metro e settantasei all’improvviso raddoppia. L’angusto abitacolo della supercar di Sant’Agata Bolognese diventa il guscio di una chiocciola, tocco ampiamente il soffitto con il casco, così o guido con la testa storta o in avanti. Opto per la seconda soluzione.

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UNA PALESTRA SU RUOTE. Mi infilo in pista con la faccia contro il volante, il bacino praticamente accanto al V12 e la scarpa destra affidata al mio passeggero, ma a breve tutto ciò diventerà totalmente irrilevante. Stacco la frizione incredibilmente dura ma progressiva ed esco dai box dirigendomi verso la prima stretta variante. Se il cambio – con la prima in basso – fosse realizzato in granito probabilmente non avvertirei differenza: passare da una marcia all’altra richiede uno sforzo muscolare notevole, ripagato da una precisione più che discreta e dal fascino unico del meccanismo a gabbia aperta. Lascio acclimatare me e la Countach (più me che lei…) per le prime curve, sfrutto l’enorme coppia del V12 per tenere una marcia in più lungo la variante della Roggia e le due Lesmo e giunto alla discesa del Serraglio spalanco tutto. Il putiferio. Il 5.2 ha un allungo impressionante già dai 2.000 giri, superati i 4.500 le sensazioni quadruplicano: la spinta aumenta, il latrato dei dodici cilindri mi invade le viscere e la Ascari si avvicina in fretta.

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LA PRECISIONE DI GUIDA HA UN PREZZO. Quinta-quarta-terza, scalo con la caviglia che fa contorsioni da bambola di pezza per il punta tacco, lotto con il volante per sfiorare il punto di corda e ritorno sull’acceleratore mentre le gomme protestano sonoramente. La Countach balza nuovamente in avanti, una scintillante scultura in movimento che si fionda verso la Parabolica con gli occhi di tutto il pubblico addosso. Ancora terza, ancora un braccio di ferro con lo sterzo, un macigno tra le gomme larghe e paffute e il piccolo volante senza servoassistenza. Immaginate di dover aprire il portello di un sottomarino ruotando una maniglia del diametro di un sottobicchiere, ecco, curvare con la Countach è così; sarà anche estremamente fisico – un pregio in realtà – ma lo sterzo di questa Lamborghini vi ripaga con una precisione insospettabile e la corona ricca di informazioni mi permette di arrivare piuttosto fiducioso al limite.

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A TUTTA BIRRA! Esco dalla Parabolica e l’orchestra alle mie spalle si infervora ulteriormente, cambio poco dopo i 6.000 giri (per riguardo: ce ne sarebbe ancora, eccome se ce ne sarebbe…) avvicinando la lancetta del tachimetro ai 230 km/h; la furia analogica del V12 non dà segni di stanchezza, nei freni non ho la stessa fiducia incondizionata così affondo il mio calzino nel pedale centrale – spugnoso e a corsa lunga – in vista della prima variante. Per evitare il fading, o realisticamente ritardarlo il più possibile, a volte rallento frenando e facendo il punta-tacco e a volte sfruttando solo il freno motore: le medie di Monza non sono esattamente quelle di Castelletto di Branduzzo e non sarebbe simpatico ricevere bandiera bianca dal vecchio impianto frenante.

VA PROPRIO DOMATA. In curva la Countach (a sorpresa, lo ammetto) si fa apprezzare: con quel grosso mostro sputafuoco alle spalle pensavo di avere lo stesso equilibrio che c’è tra ricchi e poveri a Dubai, invece l’inserimento per quanto poco immediato è sufficientemente neutro da non farmi rischiare di diventare una costosissima trottola rossa; solamente in una staccata portata fin dentro la curva della Roggia il posteriore si intraversa, ripreso maldestramente con quel piattino da caffè al posto del volante. Sto sopravvivendo, e me la sto veramente godendo, un’esperienza tanto impegnativa quanto gratificante che stimola ogni singola fibra del mio corpo da fissato di motori. Giro dopo giro cerco di assorbire il più possibile di quel che mi comunica il Toro di Sant’Agata, e giunto nuovamente alla parte più guidata di Monza – tra la Roggia e l’Ascari – anche la dinamica di guida si guadagna la mia ammirazione. La Countach non è una ballerina, è lenta e massiccia nei movimenti ma oltre al buon telaio il rollio si dimostra davvero ridotto, è più la spalla della gomma a cedere, non le sospensioni, che stanno lavorando sodo per tenere il più livellata possibile la stratosferica linea disegnata da Gandini.

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I FRENI CHIEDONO PIETÀ. Sto sudando da ogni poro del corpo eppure non vorrei più scendere, sto meditando di ignorare la bandiera di fine turno quando il pedale del freno mi manda un segnale inequivocabile: affonda un millimetro di troppo. Ahia. Mi sto inserendo nella seconda di Lesmo, raffreddo lungo il rettifilo del Serraglio ma alla Ascari capisco che il fading, simpatico quanto una multa, è ormai arrivato. È giusto così, ho assaporato ogni singolo secondo di questa sessione in pista ed è ora che io e la stanca Countach rientriamo ai box. Questo purosangue italiano non è tutto estetica e niente brividi alla guida, ha una presenza scenica devastante ma anche in pista, Monza per di più, ha saputo coinvolgermi fino al midollo.

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SEMPLICEMENTE INDIMENTICABILE. Tosta? Massacrante, ma le vecchie Lamborghini sono così: regalano uno tsunami di emozioni a patto di mostrare i loro stessi muscoli, vanno presa per le corna (scusate il gioco di parole) e col riguardo che meritano. In tutto ciò avrebbero potuto dirmi che il serbatoio era pieno di 100 ottani e non avrei notato la differenza, ecco quanto è valido il Sustain Classic della Coryton. Sollevo la portiera e scendo come uno straccio strizzato, ma raggiante per l’incredibile esperienza. La Countach mi ha dato del filo da torcere, ha allenato tutti i miei muscoli e allertato il fisioterapista del circuito, ma ha tutta la mia stima: se fosse una persona, le chiederei di autografarmi la scarpa destra.

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