
Honda Integra Type R DC5: quando il sequel è ancora meglio
La Clio diesel davanti a me inizia a far lampeggiare la freccia destra, segno che vuole gentilmente lasciarmi passare e andar per la mia strada. È un gesto davvero cortese, se solo riuscissi a superare. Non è colpa della cordiale compatta a nafta, è che siamo avvolti da una nebbia così fitta che a malapena so di avere un cofano, e la Clio appare e scompare tra la foschia come un lugubre spettro. Minuti e minuti dopo la vista si scopre per alcune decine di metri, abbastanza da inserire rapidamente una seconda, spalancare l’acceleratore e far fare al VTEC ciò che sa fare meglio: sbalordire guidatore e passeggero. Il folle acuto della coupé Honda si intensifica sempre di più, cambio a 8.500 giri con un ghigno esaltato e in un attimo la Clio scompare, stavolta non a causa della nebbia.

DALLA PARTE SBAGLIATA. Siamo nuovamente in cima al Maniva, gigante di roccia che domina la Val Trompia e la vallata del Gaver, teatro di panorami incontaminati e di un nastro d’asfalto sempre lodevole dal punto di vista della guida. Peccato per le buche ogni anno più numerose, probabilmente nel 2026 sembrerà di guidare sopra ad una pallina da golf. Se oggi i sorpassi sono più problematici dell’usuale non lo dobbiamo solamente alla nebbia ma al fatto che questa Honda Integra Type R… abbia il volante dalla parte sbagliata, o giusta se chiedete ad un inglese. La bianca due volumi che vedete in foto è una Integra Type R DC5, evoluzione di inizio anni 2000 della DC2 mai commercializzata in Italia e importata direttamente dal Giappone; le scalate risultano un po’ scomode da quinta a quarta e da terza a seconda – perché dovete allontanare la leva da voi anziché tirare verso il corpo – ma ci si fa l’abitudine relativamente in fretta.

PIÙ CAVALLI E NON SOLO. Ciò alla quale fatico ad abituarmi è quanto dannatamente bene vada questa Honda Integra, il che è un sollievo dato che per l’erede della DC2 (personalmente una delle migliori trazioni anteriori di sempre) non avrei accettato altrimenti. Sulla carta la DC5 migliora leggermente ogni singolo aspetto dell’antenata: al posto del generatore di gioia (detto anche propulsore) siglato B18C troviamo il famigerato K20A con 220 cavalli anziché 190, il cambio è a sei marce anziché cinque, il VTEC è ulteriormente affinato, telaio e sospensioni sono più rigidi e i cerchi salgono a 17 pollici di diametro, in questo caso avvolti in Toyo Proxes Sport 2.

UN BEL SALTO IN AVANTI. L’estetica diventa – a dispetto dei pochi anni di differenza – molto più moderna della DC2, anche se la vecchia Integra conserva un fascino battagliero difficile da replicare. Entrambe hanno la stessa lunghezza, variano di poco larghezza e altezza nella DC5; quest’ultima in proporzione è variata maggiormente, ecco perché il suo look risulta un po’ paffuto e meno snello. Nonostante l’aspetto da confetto arrabbiato le linee attuali e morbide rendono la più recente delle Integra gradevole da ogni angolazione, dal muso all’ala al retro. La DC5 di oggi inoltre ha l’abbinamento per eccellenza delle Type R, verniciatura in Championship White e Recaro rossi; nemmeno l’impiattamento più snob di Gordon Ramsay potrebbe reggere il confronto cromatico. Devo ammettere di non aver mai considerato troppo la DC5, vuoi perché in giro ce ne sono pochissime vuoi perché visivamente è meno tesa rispetto alla DC2 che tanto ammiro, ebbene, grosso errore.

COPPIA? LA TROVERETE. Archiviata la sopracitata Clio torno all’interno di una canna fumaria, devo pazientare qualche curva prima che la foschia si diradi rivelando un paesaggio cupo e brullo, degno del Signore degli Anelli. È tutto parte del fascino del Maniva. A questo punto riesco gradualmente ad aumentare il passo, così da esplorare le qualità di questa coupé più rara (pare ce ne siano solo cinque in Italia) di uno squalo in una fontana pubblica. Il VTEC non è mai stato famoso per essere un treno merci ai bassi ma i quasi 30 Nm di coppia in più rispetto al B18C si percepiscono. La DC5 è meno flebile della progenitrice nella metà inferiore del contagiri, il motore è più spigliato in ripresa e anche in quarta a 3.000 giri – complice la rapportatura più corta – otterrete una reazione. Non sconvolgente, ma l’avrete. Certo che lasciare a quasi un terzo del proprio potenziale il K20A è da pazzi… e io sono sempre stato un ragazzo ragionevole.

LINEA ROSSA INFINITA. Giù in seconda, faccio scorrere la Integra in curva e appena possibile riseppellisco l’acceleratore: la DC5 si contrae, tende i muscoli e quando la lancetta sfiora i 6.000 giri il mondo esplode. O così pare. Il cambio di passo è istantaneo, il sound si inasprisce a livelli teatrali e la Integra inizia a mangiare la strada. Per quanto la spinta non sia da moderno biturbo quando la terza e più scontrosa camma entra in gioco il crescendo è difficile da ignorare, e la Type R vi sommerge di sensazioni positive. Altro che terapia. Come per la DC2, anche per la DC5 la linea rossa è solo una banale questione di prassi; se potesse quell’esasperato quattro cilindri vorrebbe girare oltre il suo limitatore, in questo caso a 8.600 giri, e non mi è difficile pensarlo a suo agio sopra i 9.000.

UN PIZZICO DI PEPE IN PIÙ. La Type R di oggi in aggiunta ha subito dei lavoretti aftermarket (scarico completo, aspirazione, mappa e assetto regolabile) che non hanno snaturato questa giappo tutta cuore e tecnica, anzi, l’hanno affilata. Caccio dentro una terza sempre in zona VTEC, butto il muso della Integra in curva e lui resta lì, avvinghiato all’asfalto senza cedere un centimetro di terreno a quel nemico chiamato sottosterzo. Quarta in discesa, breve rettifilo, il percorso torna in salita e io in seconda mentre la Integra continua a divorare famelica la strada, incurante delle condizioni dell’asfalto. La DC5 è ancora più efficace rispetto all’antenata: frena meglio, ha più grip, più cattiveria, un telaio più composto e un cambio ancora più sciolto, viene naturale sentirsi a proprio agio.

URLANDO TRA LE CURVE. Le sospensioni – Buddy Racing RSD, brand del sol levante specializzato in Honda – sono tra le migliori che abbia mai provato, minimizzano il rollio, hanno una rigidità piuttosto elevata pur non essendo (come troppo spesso capita) granitiche, copiano magnificamente la strada e assorbono in quel poco di corsa tutte le asperità e le crepe di questa superficie lunare chiamata asfalto. L’inserimento in curva è tagliente, preciso, immediato. Il frontale della DC5 è solidissimo e imperturbabile, guidate pulito e sarà come avere un binario privilegiato per la cima del passo. Effettivamente sto per toccare il punto più alto del Maniva, e probabilmente se ne saranno accorti a tre montagne di distanza. I VTEC già di loro cantano a gran voce ma questo K20 – ‘colpa’ dello scarico dedicato – è surreale. Tenete un pelo di gas e il piccolo terminale fingerà di essere civile, quasi timido, date fuoco alle polveri… e dai 4.000 giri in su vi sembrerà di avere un caccia in picchiata nelle orecchie, con talmente tanti decibel e un sound così svergognato che nel giungere ai radar temo quasi una pattuglia a sbarrarmi la strada.

COMPROMESSI? POCHI. Parcheggio al Dosso dei Galli senza agenti offesi ma solo con un paio di Impreza STI ferme a raffreddare i loro quattro cilindri boxer, scendo dalla Integra e uno dei due proprietari mi guarda sorridente e fa: “è da parecchio che ti stiamo sentendo arrivare, divertito eh?”. Gli spiego brevemente quanto (tanto!), e ciò mi fa tornare all’inizio di questo articolo: la Honda Integra Type R DC5 va dannatamente bene. L’antenata è persino più genuina nelle sensazioni e lo sterzo è ancora più cristallino, dal canto suo la DC5 è efficacia pura. I circa ottanta chili in più rispetto alla DC2 non sono un grosso problema, si percepiscono più in termini di solidità piuttosto che di inerzia lasciandovi la stessa confidenza della vecchia Integra e un’agilità molto simile.

LA CONFERMA. Risalgo in macchina – dopo aver rigorosamente sbagliato lato – e mi accoccolo in quei fantastici Recaro rossi, hanno un design quasi identico ai precedenti e le stesse qualità, tenendovi ben saldi sui fianchi senza risultare scomodi nemmeno dopo ore di guida. Apprezzabili anche gli interni: la plancia è minimalista e pulita con giusto l’essenziale, quadranti bianchi, cuciture rosse, pomello Mugen (carino, ma volete mettere con l’originale in titanio?) e un volante proprio dove solitamente trovereste il cassettino con libretto, occhiali da sole e mazzetta per tentare di corrompere eventuali posti di blocco. Riavvio il K20 e comincia a piovigginare insistentemente, robetta leggera ma sufficiente a bagnare l’asfalto e aumentare di una tacca il mio livello di buon senso, cosa che la Integra reputerà inutile. Il comportamento della Type R infatti non cambia di una virgola: in inserimento il muso conserva la propria miracolosa precisione racimolando grip in maniera a me ignota e il telaio solo al limite (e un po’ cercandosela) diventa sovrasterzante. L’acceleratore è un rasoio durante il punta tacco e ora che sono in discesa la carenza di coppia ai bassi è piuttosto irrilevante, anche perché il VTEC è tornato ai regimi alti squarciando la quiete del Maniva.

DC5 O DC2? Francamente non pensavo che la DC5 mi sarebbe piaciuta tanto, forse non lo volevo nemmeno visto che sono un fan dichiarato della DC2 eppure questo beluga con guida a destra è l’ennesima riprova di quanto Honda ci sappia fare nel settore hot hatch. Senza le due o tre modifiche mirate la Integra di oggi non sarebbe stata così specialistica e coinvolgente, ma se consideriamo che la sua antenata è eccezionale già di serie non stento a pensare lo stesso anche per la variante più moderna. La linea della DC5 può piacere o meno, il suo piacere di guida al contrario non è da mettere in discussione; importarne una dal Giappone o dall’Inghilterra è un grattacapo costoso ed estenuante ma sapete una cosa? Trovate quella giusta e non ve ne pentirete.
Un grande ringraziamento al buon Federico Sai
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