
Questa gruppo B è pazzesca e devi per forza conoscerla
Dal 1982 al 1986, la classe regina del Mondiale rally era il Gruppo B. Animata da “belve” dalla potenza sfrenata, questa categoria è stata la più spettacolare di sempre, ma anche la più pericolosa. Le maglie del regolamento, all’epoca, erano molto, molto larghe, e di bello c’era che non era prevista una “ricetta” fissa: ogni costruttore era libero di sperimentare e far gareggiare il proprio laboratorio viaggiante. Alcuni, come l’Audi Quattro, la Peugeot 205 Turbo 16 e la Lancia Delta S4, sono entrati nella leggenda; altri, come la sfortunata Skoda 130 LR, per esempio, sono finiti per direttissima nel dimenticatoio collettivo. A proposito di auto dimenticate, forse non molti ricorderanno che, all’epoca, a colpi di appendici aerodinamiche e cavalli rabbiosi, tra i grandi del rally aveva tentato di ritagliarsi un posto anche la Daihatsu, che in Europa cominciava ad affacciarsi (e a costruirsi un’ottima reputazione) con le sue piccole 4×4.
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BIALBERO COL TURBO. Per conoscere questa storia, bisogna riportare le lancette dell’orologio indietro al 1985. La Daihatsu da un annetto faceva correre la Charade Turbo gruppo A, ma gli ingegneri giapponesi avevano intuito che il potenziale di quella piccola berlina era tale da poter osare di più. Molto di più. Fu esattamente quel che fecero, e al salone di Tokyo la casa di Ikeda svelò la Charade 926R, progettata secondo le specifiche del gruppo B per vetture con motore fino a 1.3 di cilindrata. Sotto il cofano di quella “belvetta” pulsava un cuore italiano, il piccolo tre cilindri di derivazione Innocenti che la De Tomaso modificò pesantemente, con la distribuzione bialbero a camme in testa e l’aggiunta di un turbo. I cavalli erano 120 CV, che coi parametri di oggi non sono un granché, ma per una “macchinina” così piccola (e che in configurazione di gara a vuoto sarebbe pesata meno di 700 kg…) proprio pochi non erano. Il cambio era manuale a cinque marce, mentre le sospensioni erano a quadrilatero sia all’avantreno sia al retrotreno, come nelle sportive.

FACEVA PAURA. Della carrozzeria della Daihatsu Charade da cui derivava la De Tomaso 926R, che aveva il motore al centro, per migliorare la distribuzione dei pesi, conservava di fatto solo le porte e il tetto. Per il resto, trionfavano ali e alette e prese d’aria, per tenere quel “missile” in formato mignon il più possibile incollato alla strada e dare fiato al suo esuberante tre cilindri. Tutto questo oggi può far sorridere di tenerezza, ma negli anni ’80 auto del genere, nel loro piccolo, facevano letteralmente paura.


OCCASIONE SFUMATA. Il progetto della Daihatsu Charade De Tomaso 926R non aveva nulla di tecnicamente irrealizzabile, eppure non si tradusse mai in un’auto vera. I gravi incidenti che segnarono gli ultimi due anni del gruppo B, infatti, imposero alla Fia una seria riflessione sull’opportunità di proseguire quello spettacolo così coinvolgente e spaventoso. Con il bando di quelle “trappole” mortali travestite da auto da corsa a partire dalla stagione 1987, la casa giapponese si vide costretta a rivedere i suoi piani e le sue ambizioni, e non riuscì neanche a omologare una meno “estrema” vettura nel gruppo A, perché sarebbero servito produrre 5.000 macchine stradali, contro le 200 previste dal gruppo B. Inutile dire che, sportivamente parlando, ci siamo persi qualcosa di bello e fuori dagli schemi…





















