Lancia Aurelia: ti prendo e ti porto al museo

Lancia Aurelia: ti prendo e ti porto al museo

 Ti sei mai chiesto come ci arrivano le auto che vedi alle fiere? O nei musei? No. Se te lo domandi adesso, pensi a grigie bisarche transautostradali. Spesso è così. Ma quando va bene ci vanno sulle loro ruote, col loro bel motore, macinando i bei chilometri che separano il punto A dal punto B. Ma quando va proprio di lusso, allora sei tu che gliela devi portare. Come questa volta qui, dell’Aurelia B12, classe 1955, l’ultima berlina del fortunato modello. Dal Veneto al Piemonte, via Piacenza. E scatta subito l’operazione #pedaltothemetal.

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PRESENTAZIONI. Evoluzione di B10 e B21, la B12 in realtà è stata una rivoluzione. La verità è che le prime Aurelia berlina, apprezzatissime per qualità di finiture e comfort di marcia, avevano un po’ lasciato l’amaro in bocca a chi, da una Lancia, e soprattutto dall’erede dell’iconica Aprilia, si aspettava anche prestazioni adeguate. A deludere non erano tanto i 70 cavalli, ma i 135 km/h di velocità massima. La risposta di Lancia? La B12, un capolavoro. E non solo per i 20km/h in più. Motore maggiorato, ora quasi 2300cc (sempre il V6 stretto di De Virgilio, l’ennesimo primato Lancia: prima dell’Aurelia non si era mai visto un V6 su un’auto di serie), portiere e cofani in alluminio. La linea cambia decisamente, un po’ meno tondotta delle sorelle, acquista in eleganza. Il cruscotto sogna l’America e il cambio al volante (manuale a quattro marce, con prima non sincronizzata) si ispira proprio alle Cadillac d’oltreoceano (che però erano automatiche). E poi una serie di dettagli intelligenti, la ruota di scorta non è più sdraiata, ma in piedi, e il baule guadagna in capacità. Le gomme sono radiali (altra prima assoluta), luce della retromarcia (rossa) e lavavetri. Ma le cifre delle berline precedenti non vengono toccate: le portiere, senza montante in mezzo, si aprono a libro. Sali dietro e ti senti un signore, anche perché per terra c’è la moquette (che manca davanti e nel baule, dove, essendo posti di servizio, c’è la gomma). 

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446 CHILOMETRI ALL’ARRIVO. Insomma, si parte. O quasi. Vuoi non farci un giro intorno prima di salire? Appunto. Questo colore un po’ così, che fu preferito al classico blu Lancia per non notare la polvere (allora di asfalto ce n’era in giro molto poco), oggi è più che attuale, a metà tra l’opaco e una trovata di Lapo. Una tinta che esalta la semplicità del disegno, la pulizia di fiancate e posteriore. Cosa noto? Lancia, oltre allo stemmino sul radiatore, è scritto solo sulle coppe delle ruote. Nessun altra targhetta, sigla, niente. Che è un’Aurelia lo capivi da te e la cilindrata non era un problema che ti doveva riguardare. Eleganza, negli Anni ’50, era soprattutto understatement.

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FINEZZE, UNA DOPO L’ALTRA. Apro il cofano. Sembra che abbiano rubato il motore, perché nonostante so che c’è un V6 sembra vuoto, con tanto bello spazio per metterci le mani (ecco perché era così amata dai meccanici). Sulla sinistra, il serbatoio di due liquidi fondamentali: freni, ma soprattutto sospensioni (a olio, appunto, con tanto di stantuffo del precarico). Finalmente salgo. È un salotto, raffinato, col suo bel panno in tinta, con un cruscotto semplice, lineare, ma completo (manca solo il termometro dell’acqua, ma ci sono gli indicatori della pressione dell’olio e del livello della benzina). Sotto il volante ci sono i comandi di aria e acceleratore a mano, per scaldarla. La chiave è lì, nel bel mezzo di quel fregio cromato che sa di accendini eleganti, pipe, smoking e jet-set. Inserisco la chiave, giro, premo, non schiaccio. E… che rombo. Una cosa che ti dice semplicemente: “ci penso io”. I sei girano rotondi, morbidi come il velluto, avvolgenti.

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QUELLO CHE NON TI ASPETTI. M’è venuta una gran voglia di partire. E parto. Il cambio al volante è intuitivo (a sinistra), le marce entrano per inerzia, basta seguire il movimento della leva. Fa tutto da sé. È un’auto da signori e i signori non amano far fatica. Per questo hanno l’autista, quindi il cambio sono un po’ fatti suoi e non parliamone più. Non c’è il servosterzo, ovviamente, e anche se il primo pensiero che ti viene in mente è di nuovo ‘sono affari dell’autista’, in realtà appena la muovi di uno zic tutto si alleggerisce a tal punto che ti vien voglia di far parcheggi a S a raffica. La prima è corta, molto corta, la seconda giusta, metti la terza e diventa automatica. Nel senso che la coppia è talmente a portata fin dai primi giri (157 Nm a fronte di 87 cavalli), che ti puoi dimenticare il cambio. Il V6 riprende sempre, allunga il giusto, ti chiede la quarta quando serve e in autostrada spinge finché vuoi (auto così nascevano in anni di boom economico, quando velocità massima e velocità fattibile erano la stessa cosa). Il volante, nero, parla. Ti dice cosa sta succedendo lì davanti come se fosse quello di una sportiva. La distribuzione dei pesi ne esalta la guidabilità. Davanti ci sono motore e batteria, dietro benzina, ruota di scorta, ma soprattutto cambio, differenziale e freni sospesi.

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RICORSI. L’Aurelia ti porta a spasso come dovrebbe fare una che ti vuole bene, non ti stressa, non ti distrae con cose inutili, ma ti racconta una storia che ti piace sentire. Il rombo, perché non è un rumore né un suono, sa di nenia della nonna. Ti coccola chilometro dopo chilometro. Buca dopo buca. Buca? Sì perché quelle sospensioni fanno entrare nell’abitacolo solo il mondo che vogliono loro, filtrando vibrazioni, frizioni, menate varie, e l’Italia torna a essere il Bel Paese che era, anche se a Piacenza c’è la nebbia (ma i vetri azzurrati di serie, altra novità della B12, in qualche modo contrastano il grigio) e l’autostrada per Asti è tutta lavori in corso.

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DESTINAZIONE MAUTO. Mi fermo per far benzina. Il tappo è nel baule. Che scomodità dice il benzinaio che non capisce niente. E non pensa che una volta le pensiline non c’erano e se pioveva era più l’acqua che entrava (e si prendeva) che la benzina. E poi così non c’è bisogno di serratura e non rovina la linea. La prossima volta vado al self (quanto consuma? Ho fatto i 12 con un litro, un po’ di strade normali, un po’ di autostrada a velocità giuste, 130 km/h di tachimetro). Riparto subito, non sento nessun bisogno di sgranchirmi, il sedile unico, un divanetto (davanti, come dietro), è comodo, misura giusta per gambe e schiena. Comincio a vedere le indicazioni per Torino. Purtroppo ci stiamo avvicinando pericolosamente al Mauto. Lo so, la tratteranno bene, nei tre mesi di mostra sarà in bella compagnia di tante altre Aurelia. Una bella rimpatriata insomma. Ma io non sono mica preoccupato per lei. Lo sono per me: ehi Siri, imposta un timer di tre mesi.

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