Lamborghini Manifesto: dice poco, ma dice tutto?

Lamborghini Manifesto: dice poco, ma dice tutto?

Dopo la Revuelto, la supercar ibrida che ha riscritto (forse) la grammatica stilistica (e non solo) della Lamborghini, e la sua “sorellina” Temerario, si pensava che a Sant’Agata Bolognese potessero finalmente tirare un po’ il fiato. E invece no: come se quel “bestiale” uno-due non fosse abbastanza, è arrivata la Fenomeno, una one-off che spinge all’estremo ogni tratto del linguaggio della casa emiliana, frutto di un esercizio di stile che abusa volontariamente di grafismi e soluzioni esasperate, tanto da sembrare più una scultura digitale che un’automobile.

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PRUDENZA O PAURA DI OSARE? Proprio quando la parte più succosa della gamma sembrava ormai definita, quindi, ecco spuntare la Lamborghini Manifesto. Un nome altisonante, quasi pretenzioso, come se si trattasse di un proclama estetico e filosofico, più che di una semplice concept car. A guardarla con attenzione, però, questo manifesto appare in realtà una dichiarazione d’intenti scritta con la matita della prudenza. La Lamborghini Manifesto si presenta come una riflessione sulla semplicità. Si fa portavoce di un ritorno a forme più pure, a un controllo delle superfici che dovrebbe evocare chiarezza e rigore. Nella pratica, però, il risultato rischia di apparire fin troppo levigato, quasi “molle”, se come pietra di paragone si considera la tensione tipica delle Lamborghini. E questa insolita compostezza trattenuta, questa “pulizia” tanto celebrata, finisce inevitabilmente per somigliare a un’estetica del compromesso più che a una visione radicale.

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LA GRAFICA SUPERA LA FUNZIONE. Restano poi i grafismi, elemento ormai costante del linguaggio contemporaneo della Lamborghini: soprattutto quei fari triangolari, taglienti e decorativi, che sembrano più un segno grafico che un dispositivo funzionale. A questi si aggiungono le pinne che si generano dai teorici sul tettuccio, soluzione scenografica e quasi calligrafica, mirata a disegnare linee d’aria, più che a suggerire un vero scopo aerodinamico. Tutto sembra voler comunicare movimento e intensità, ma con un controllo quasi ossessivo, come se ogni gesto del design dovesse essere misurato e spiegato.

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UNA MUSA IMPRESCINDIBILE. Ancora una volta in casa Lamborghini emerge un chiaro richiamo alla Countach, o meglio al suo mito, continuamente rievocato come fondamento identitario. Un riferimento rassicurante e potente, ma forse ormai troppo familiare per riuscire a sorprendere davvero. Ma da un’auto che si chiama Manifesto, forse, è lecito attendersi qualcosa di più: una presa di posizione, una rottura capace di indicare un nuovo orizzonte. Come fece la Countach nel 1971, perfetta epitome di quel coraggio, ormai sempre più raro, che non solo non può mancare, ma serve in dosi generose per sposare un linguaggio inedito per non far rimpiangere un trionfo assoluto come quello della Miura. All’epoca la Lamborghini seppe sorprendere il mondo; più di mezzo secolo dopo, sembra preferire la sicurezza della memoria.

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UNA CONTRADDIZIONE? La Lamborghini Manifesto, nel suo desiderio di purezza, riflette una tensione affascinante ma irrisolta: quella tra la volontà di semplificare e la paura di smettere di stupire. Un filo invisibile su cui è difficile trovare il giusto equilibrio, e che lascia il dubbio se questo manifesto rappresenti davvero un nuovo inizio o soltanto un elegante promemoria del passato.

Testo di Michele Albera 

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Un commento su “Lamborghini Manifesto: dice poco, ma dice tutto?”
  • carburettor_guy ha scritto:

    Ottima analisi di design! Parere personale? Non mi piace, sembra fin troppo un… prototipo. Ma nel senso di acerbo, incompleto, non di spettacolare. Da un centro stile il cui obiettivo dovrebbe essere sfornare le supercar più belle e desiderabili del mondo, mi aspettavo non qualcosa, ma molto, molto di più…

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