Alfa Romeo, un sogno chiamato Diva

Alfa Romeo, un sogno chiamato Diva

Da dietro le quinte al proscenio in quella che, al Museo Storico Alfa Romeo, potrebbe sembrare una perfetta notte degli Oscar. Nel secondo atto della rassegna Backstage 2020 la statuetta va a una sportiva di rosso vestita che, nel buio della sala Giulia, brilla come una stella tra le più luminose nel firmamento delle grandi Alfa del passato.

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RITORNO AL PASSATO. Ruba sguardi ammirati e si lascia abbagliare dai flash, attendendo con pazienza il momento giusto per (ri)prendersi la scena. Sono trascorsi praticamente vent’anni da quando Zbigniew Maurer immaginò la sua ‘Diva’ quasi in segreto, senza budget né numero di progetto, nelle stanze del centro stile di Arese. Fu un lampo, un’idea di bellezza appena sussurrata, affidata a un’automobile agile e leggera che, nella mente del suo creatore, avrebbe dovuto ricongiungere stilisticamente e filosoficamente l’Alfa Romeo ai propri valori fondativi. Questione di linee, di piacere di guida, di quel perfetto equilibrio tra potenza e leggerezza che da sempre ha reso famose nel mondo le auto del Biscione. Sul suo quaderno degli schizzi e nella sala gessi, quel luogo magico sospeso tra fantasia e realtà dove le automobili del futuro si modellano con le nude mani, Maurer aveva già immaginato tutto. La Diva doveva essere insieme bellezza effimera ed eterna, un istante di meraviglia da cogliere mentre sta passando, un frammento di magia difficile da afferrare se osservato solo con gli occhi. Proprio per questo, per il fatto che sia rimasta una concept car e non abbia mai visto le luci della catena di montaggio, qualcuno potrebbe pensare che sia stata poco più d’una meteora: niente di più sbagliato. Perché la Diva, spiega Lorenzo Ardizio, curatore del Museo Storico Alfa Romeo, “non nasce come un’isola, ma s’inserisce in un percorso più lungo, che avrà un seguito e segnerà un nuovo corso nel design dell’Alfa Romeo”. Ne è prova la 4C, con cui nel 2013 gli uomini del Biscione sono riusciti a trasformare il sogno di una piccola supersportiva Alfa in realtà.

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HISTORIA MAGISTRA VITAE. Insieme a Maurer, a contestualizzare la genesi della Diva – uno degli ultimi progetti del centro stile di Arese diretto prima da Andreas Zapatinas e poi da Wolfgang Egger – è Alessandro Maccolini: “In quel periodo – racconta l’attuale capo del design degli esterni Alfa Romeo – tutti i nostri sforzi erano concentrati sul progetto della 8C Competizione, un’auto che pur recuperando alcuni stilemi classici del marchio appariva obiettivamente un po’ sopra le righe”. Una gran turismo più nelle corde di un brand come Ferrari o Maserati, qualcosa di distante, insomma, dal concept di ‘sportività evoluta’ attorno al quale in parallelo, secondo la più squisita tradizione della casa milanese, stava prendendo forma il sogno di una sportiva leggera e compatta. Il mantra ‘piccole e agili’ infatti, ha accompagnato l’avventura del Biscione fin dai primi passi: “Basti pensare che prima della Seconda guerra mondiale la Bentley costruiva motori di 4,5 litri con il compressore, mentre le Alfa Romeo più potenti non raggiungevano i tre litri di cilindrata”, sottolinea Maurer, che alle doti di creativo puro abbina una vasta e solida conoscenza storica del marchio milanese. Non a caso, la Diva è piena di citazioni. “Ho sempre sostenuto che in Alfa Romeo avevamo poco da inventare e un grande passato da cui attingere”, afferma il car designer polacco, che nel tracciare le linee della Diva non ha avuto un’unica musa ispiratrice. “La 33 Stradale era certamente il modello a cui doveva tendere il risultato finale, ma c’è dell’altro. Nel frontale, per esempio, si riconoscono le forme della 750 Competizione, mentre lo scalino sul musetto, inclinato di 45 gradi, è un chiaro omaggio alla Giulia Sprint GT”.

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SI POTEVA FARE… Anche per quel che riguarda il motore la scelta più ovvia era guardarsi in casa. “Avevamo il V6 Busso nella sua ultima evoluzione di 3,2 litri – spiega Maurer -, un’unità perfetta per realizzare quella che era la nostra vera ambizione: costruire non un’auto da corsa, ma un modello per gli amanti della bella guida che non richiedesse eccessivi sforzi economici per essere progettato e messo in produzione”. Ecco allora che soffermandosi sul telaio – modificato con elementi in fibra di carbonio ma pur sempre ereditato dalla 159, una macchina alta e pesante, senza particolari velleità sportive – appare più che lecito il paragone che Maurer fa con la Fiat affermando che, con la Diva, “volevamo fare quello che a Torino, trent’anni prima, avevano fatto con la 128 e la X1/9”.

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SOLUZIONI GENIALI. Se il cambio Selespeed era tutto fuorché un fulmine di guerra, ben altro impatto ebbero le portiere, che ancora una volta riproponevano in toto una delle geniali intuizioni che negli Anni ’60 Franco Scaglione ebbe nel progettare la 33 Stradale. Il meccanismo di apertura e chiusura è addirittura più evoluto dei sistemi ‘ad ali di gabbiano’ o ‘a forbice’, dato che l’asse di rotazione inclinato passa per due punti molto distanti tra loro e consente la realizzazione di portiere leggerissime, oltre a rendere più facile l’accesso a bordo. Osservando la coda, l’occhio non può non soffermarsi sul doppio terminale di scarico: “È posto al centro e piuttosto in alto”, fa notare Maurer, che spiega come, inizialmente, “lì ci sarebbe dovuto essere il terzo stop e l’attuatore dell’alettone regolabile. Qualcosa che in termini di tecnologia andava oltre la griglia mobile della 911 e il flap dell’Audi TT”. Ma le soluzioni fantasiose non finivano qui: Maurer aveva pensato addirittura a radiatori mobili. “Si sarebbero dovuti muovere per farsi investire dal flusso dell’aria”, spiega il designer, rivelando come “lo scudetto centrale avrebbe fatto soltanto da presa d’aria dinamica per la ventilazione dell’abitacolo”. A smaltire il calore del vano motore, aspetto fondamentale per un’auto ad alte prestazioni, avrebbero provveduto la presa d’aria NACA sul tetto e l’ampia griglia posteriore.

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IL FLIRT CON LA LOTUS. All’interno, pochi fronzoli. Anzi, pochissimi. Del resto “nessuno credette mai di dover creare una vera plancia”, svela Maccolini, che paragona l’abitacolo della Diva al posto di guida di una motocicletta. Un’auto che concettualmente si rifaceva un po’ alla Lancia Stratos e molto si avvicinava all’idea di purezza ed essenzialità incarnata dalla Lotus, alla quale le potenzialità del progetto del Centro Stile Alfa Romeo non passarono inosservate. “Speravamo nell’appoggio della casa di Hethel, che all’epoca era nell’orbita della General Motors” confessa Maurer, sicuro che, con la commessa per la realizzazione della Opel Speedster che andava esaurendosi, “la Diva avrebbe senz’altro fatto al caso loro”. Un’occasione sprecata più sulla sponda italiana che su quella inglese, dove nello stesso periodo stava prendendo forma il progetto M250, una sportiva di razza a metà strada tra la Elise e la Esprit che molto aveva in comune con la Diva.

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A TUTTI I COSTI. Dai primi, magici momenti di ricerca creativa alla realizzazione fisica del modello, fino alla presentazione al Salone di Ginevra del 2006, è un calvario. Per il centro stile di Arese, dove la passione e l’entusiasmo dei designer si scontrano spesso con la frustrazione per i tanti progetti mandati in fumo sul più bello, è ordinaria amministrazione. D’altronde, spiega Maurer, “per il gruppo Fiat era già una follia la 8C Competizione: nessuno di noi credeva davvero che ci avrebbero permesso di fare anche la Diva”. Con un budget inesistente e – fatta eccezione per l’Elasis di Pomigliano d’Arco – senza alcuna sponda da parte dell’azienda, a meno di sei mesi dalla kermesse ginevrina le uniche certezze rimangono l’entusiasmo e la competenza di alcune piccole realtà che sembrano respirare gli stessi sogni del centro stile. “Stefano Ardagna, un abile modellatore con un importante trascorso in Stola, simmetrizzò l’auto e ne levigò le superfici, esattamente come farebbe un restauratore di auto d’epoca”, racconta Maurer.

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AL DI LÀ DEI SOGNI. La carrozzeria, invece, fu realizzata dalla scuola di Franco Sbarro, designer salentino famoso per l’originalità di alcune sue creazioni. L’atelier francese di Pontarlier, a due passi dalla Svizzera, era un luogo dei sogni dove il confine tra design e modellatura, semplicemente, non esisteva. Maccolini, che da ragazzo frequentò la scuola di Sbarro per uno stage, la ricorda “avvolta in una perenne nuvola di polvere, con le saldatrici sempre in funzione e un odore acre di resina poliestere che non andava mai via”. La memoria di Maurer, invece, mette a fuoco Sbarro e i suoi allievi, senza i quali la Diva che conosciamo oggi non sarebbe mai esistita e mai avrebbe calcato le scene del Salone di Ginevra: “Franco è un personaggio davvero squisito e i suoi ragazzi lavorarono con grande passione: erano poco più che un’armata Brancaleone, ma seppero andare al di là dei sogni”.

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2 commenti su “Alfa Romeo, un sogno chiamato Diva”
  • Alberto Spriano ha scritto:

    Abbiamo chiamato braccia e sono arrivati uomini.
    Max Frisch

    Dietro Diva c’è la storia di un emigrato italiano, figlio della grande emigrazione meridionale in Svizzera, iniziata nel dopo guerra.

    Da Presicce, un piccolo paese del Salento, Franco Sbarro, l’unico figlio maschio della famiglia, all’età di 18 anni, con pochi soldi ma molte idee e una passione smisurata, lascia l’Italia e si dirige in Svizzera dove da carrozziere, apre la sua attività in un paesino di 3.000 anime a Grandson nel Canton Vaud.

    Sbarro dorme e da sempre, le sue auto gli appaiono in sogno dall’età di 6-7 anni. Finché sognerà ed avrà un cliente disposto a immaginare e comprare i suoi sogni continuerà a realizzare i suoi lavori di artigianato scultoreo in poliestere. 600 opere sparse in tutto il mondo per puro caso, dice il nostro emigrato.

    I suoi clienti più fedeli sono re arabi ed emiri che stravedono per lui.

    Ogni anno sta lì, al salone di Ginevra a divertire la gente, sbalordendola con nuove idee. Più la domanda del cliente si avvicina al suo sogno e meno questo sogno condiviso, costa al cliente.

    Franco va a vedere una fabbrica di planeur e si porta via le cupole degli alianti per unirle ad un telaio a siluro e a un motore V8 che aveva lì in carrozzeria.

    Nel 1976 realizza 56 Sbarro elettriche. Elettrico ancora prima di Tesla.

    Peso e aerodinamica, 2 litri per 100 km, questi sono oggi gli obiettivi di Sbarro.

    E bisogna ammetterlo, la Diva è più che mai attuale, ed è molto meglio della 4C e della 8C.

    Bisogna solo avere il coraggio di farla. Come ha fatto lui con i suoi ragazzi dell’école Espera Sbarro.

    Perché a 81 anni suonati Francesco Zefferino Sbarro sogna più di allora.

  • Alberto Spriano ha scritto:

    Diva di nome, ma non di fatto.

    Sotto i pannelli di carrozzeria curvilinei in poliestere c’era un telaio a struttura mista, in lamiera di acciaio, tubolare e fibra di carbonio.

    L’estremità posteriore era composta da un telaio tubolare a sezione rettangolare in acciaio, mentre il telaio anteriore e centrale in lamiera d’acciaio era parte del pianale premium della 159.

    Tolto il motore trasversale anteriore bisognava chiudere la struttura.

    ATR-Group realizzò il sottotelaio anteriore in fibra di carbonio collaborante strutturalmente. Il sottotelaio chiudeva inferiormente la struttura anteriore al fine di ottimizzare il comportamento dinamico e la rigidità dei punti di sospensione oltre a sostenere il piantone con la traversa a struttura reticolare che chiudeva l’abitacolo.

    Le sospensioni anteriori e posteriori avevano i doppi bracci oscillante con componenti in lega di alluminio e ammortizzatore push-rod.

    Il Busso V6 da 3,6 litri era montato trasversalmente è collegato a un cambio Selespeed presentava un interessante quanto inutile sistema di scarico sviluppava 290 CV. Interessante perché era a geometria variabile. Venne realizzato da Tubistyle in Inconel 600, una lega nichel. Per produrre rumore i flussi di scarico erano controllati da due valvole di scarico e un tubo bypass che collegava i due tubi di ingresso.

    Il colpevole fu il vecchio Busso, anche con il nuovo sistema di scarico non era in grado di soddisfare nessuno standard di omologazione, oltre ad essere troppo sovrappeso per dare alla Diva le prestazioni che si ricercavano.

    L’obiettivo era un peso a vuoto di 900 kg, ma il prototipo si attesto a 1.100 kg,

    La 33 Stradale di Scaglione con il telaio bitubolare a serbatoio pesava 700 kg.

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