Alfasud, una questione (non solo) meridionale

Alfasud, una questione (non solo) meridionale

Raffinata, innovativa, comoda, veloce. Per certi versi, addirittura geniale. Se solo l’avessero chiamata in un altro modo, verrebbe da chiedersi… Per comprendere le vicende politiche, economiche e sociali legate all’avventura industriale dell’Alfasud, è utile partire dal nome dell’auto e della fabbrica che all’alba degli Anni ’70 del Novecento, attraverso la produzione su larga scala del modello d’accesso alla gamma Alfa Romeo, avrebbero dovuto colmare il divario tecnologico e produttivo tra settentrione e meridione. Per tutta una serie di ragioni, come vedremo, per molti fu fin troppo facile far coincidere quel nome con il concetto di inefficienza che buona parte degli italiani, ancora oggi, associa al Sud. Altrettanto facile, col senno di poi, fu liquidare quella scelta come un errore di marketing, visto che proprio nell’unione di quelle due parole, Alfa e Sud, era racchiuso in realtà il progetto più ambizioso tra quelli varati nell’ambito della programmazione economica per lo sviluppo del Mezzogiorno e, in particolare, dell’area napoletana. Una grande fabbrica, che avrebbe dato lavoro a decine di migliaia di persone, in una zona depressa ma, a differenza di tante altre del meridione, con una forte tradizione industriale. Dal polo siderurgico Italsider di Bagnoli allo stesso stabilimento Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, dove negli anni del boom economico si producevano motori diesel e autobus a due piani, Napoli aveva tutte le carte in regola per cullare il sogno di un’Alfa Romeo targata Sud.

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UN OBIETTIVO AMBIZIOSO. Un’automobile diversa dalla Giulia e dalle altre vetture prodotte nello stabilimento di Arese, modelli destinati a una clientela benestante che gli operai degli anni 60 potevano solo sognare. Una macchina più piccola, che avrebbe fatto concorrenza alla Fiat 128 e alla Opel Kadett, senza rinunciare, però, al dna sportivo della casata del Biscione. Una vettura completamente nuova per concezione e posizionamento di mercato, con il motore boxer e la trazione anteriore, da costruire in 300mila esemplari all’anno: una scommessa rischiosa per l’Alfa Romeo, che puntava a triplicare la propria produzione quando lo slancio del miracolo economico si era ormai esaurito; ma proprio per questo anche una grande occasione, forse l’ultima, per completare la trasformazione da piccola a grande fabbrica di automobili iniziata negli anni 50 con la Giulietta. Scorrendo le fotografie a corredo dell’articolo vi raccontiamo luci e ombre dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco. Un viaggio nell’anima di una grande fabbrica del Mezzogiorno piena di pericoli e di possibilità, di scelte e di rischi, con al centro uno dei modelli più amati e controversi nella storia dell’Alfa Romeo.

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