Bugatti EB 110: oggi, preziosa più che mai

Bugatti EB 110: oggi, preziosa più che mai

Una fabbrica spettacolare: un grande parallelepipedo blu (Bleu Royale, per l’esattezza) ai margini dell’autostrada A22 Modena-Brennero, alle porte di Campogalliano (MO). Un lancio spettacolare: 1800 invitati a Parigi, il battesimo ufficiale (padrino d’eccezione l’attore Alain Delon, affiancato dal presidente francese Francois Mitterrand) sulla piazza centrale della Défense di Parigi (l’avveniristico quartiere d’affari alla periferia Ovest della capitale francese), seguito da una cavalcata trionfale lungo gli Champs Elysées e da uno spettacolare gala dinner nella Orangerie della Reggia di Versailles, con fuochi d’artificio e champagne a fiumi (più di 1000 bottiglie personalizzate stappate da un team di 20 sommelier). In una data non meno significativa: 15 settembre 1991, 110 anni esatti dalla nascita di quel gran genio dell’automobile che fu Ettore Bugatti.

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CALEIDOSCOPIO TECNICO. Tanto spettacolo per una macchina, per l’epoca, rivoluzionaria: la Bugatti EB 110. La rivale per eccellenza della Ferrari F40, ma con parecchie cose in più: 12 cilindri invece di 8, quattro turbocompressori in luogo di due, trazione integrale invece che solo posteriore, 550 cv contro 478. Per una velocità massima di 350 km/h, rispetto ai ‘soli’ 324 della vettura del Cavallino, e uno 0-100 in 3,5 secondi (che all’epoca, erano davvero pochi). La Bugatti EB 110 traduceva in realtà il sogno di un imprenditore italiano, mantovano di origine (classe 1932) ma trapiantato da tempo a Bolzano. Romano Artioli era il titolare della AutoExpò di Ora: non solo la più grande concessionaria Ferrari in Europa (a capo della distribuzione delle auto del Cavallino nel Nord Italia e nel Sud della Germania), ma anche l’importatrice nel nostro paese delle Subaru e delle Suzuki fabbricate in Spagna dalla Santana (erano gli anni del grande successo delle piccole fuoristrada SJ 410).

CARBONIO. E TANTO. Piacesse o no, la Bugatti EB 110 nasceva da un progetto importante. Che vedeva coinvolti partner tecnici di grande rilievo e pari competenze nell’alta tecnologia. Per la realizzazione della scocca in fibra di carbonio (roba da Formula 1, la Ferrari F40 si ‘accontentava’ di un telaio a traliccio tubolare con pannelli di rinforzo in Kevlar) era scesa in campo la Aérospatiale (autrice di velivoli celebri come il jet Concorde e l’elicottero Alouette, ma anche di missili balistici); per la lubrificazione a carter secco del V12 di 3,5 litri a quattro assi a camme in testa e a cinque valvole per cilindro la società petrolifera Elf; per calzare la macchina con pneumatici 245/40-18” anteriori e 325/30-18” posteriori omologati fino a 350 km/h il ‘gommista’ Michelin.

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IL DESIGN DELLA DISCORDIA. Risultato? Una coupé biposto a passo corto (2550 mm) dalle linee morbide e tondeggianti, fuori dal coro rispetto ai profili taglienti e affilati in vigore all’epoca. La sua carrozzeria era stata abbozzata dal designer Marcello Gandini, l’autore delle Lamborghini Miura e Countach, ma poi finalizzata (con interventi sostanziali) dall’architetto Giampaolo Benedini, a cui era già stato affidato l’aspetto della fabbrica di Campogalliano. Tecnicamente, la vettura offriva tutto quanto potesse solleticare il palato dell’appassionato più incontentabile: oltre alle caratteristiche già accennate, c’erano un cambio manuale a sei marce, tre differenziali a controllo elettronico per ripartire la trazione (al 73 percento al posteriore e al 23 per cento all’avantreno), quattro dischi freno in carbonio realizzati dalla Messier-Bugatti (altra firma transalpina attiva nel settore aerospaziale) a garantire la sicurezza necessaria, oltre a finezze nascoste come il basamento del V12 realizzato in una esclusiva lega di alluminio e magnesio, una complessa distribuzione a cascata d’ingranaggi silenziosi, bielle in titanio al pari della bulloneria e di particolari cuscinetti per ottenere l’accoppiamento ottimale tra le stesse bielle e l’albero motore. Poteva essere un successo, ma si risolse in un flop. Per tanti motivi. Di sicuro, i costi esorbitanti di produzione di ogni vettura; poi, i bilanci della società, gravati pure dagli investimenti fatti per creare la nuova factory, dal ‘conto’ del faraonico lancio di Parigi, dall’acquisto da parte di Romano Artioli (nel 1993) della Lotus Cars, l’azienda che fabbricava le GT stradali britanniche (il team di F1 faceva già capo a una diversa realtà). Poi, ci si potrebbe mettere il lancio, nel 1992, di una rivale più che scomoda: la McLaren GT, forte della sua autorevolezza tecnica. Certo, alla credibilità di tutta l’operazione avrebbero forse giovato di più una presentazione al Nurburgring (magari con una 24 ore no-stop a dimostrazione dell’affidabilità della macchina), invece che una passeggiata sugli Champs-Elysées, e un testimonial come Jacky Ickx in luogo di Alain Delon. Così, a poco valsero i 7 minuti e 44 secondi netti ottenuti dalla EB110, in una serie di test, proprio sull’Inferno Verde tedesco, così come l’acquisto di un esemplare (giallo con interni blu, nella versione potenziata e alleggerita SS, 610 cv contro 550 e 1470 kg contro 1620) da parte di Michael Schumacher, fresco vincitore del suo primo titolo iridato (1994) con la Benetton-Ford.

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TRAMONTO PRECOCE. La storia ebbe una fine rapida. Il 25 settembre del 1995 i 250 dipendenti della Bugatti trovarono chiusi i cancelli della factory di Campogalliano: il tribunale fallimentare ne aveva dichiarato la bancarotta, e la produzione della EB 110 (che Artioli prevedeva in 400 esemplari/anno a regime) si chiuse con la fabbricazione di sole 139 vetture. Delle quali, ne furono effettivamente consegnate ai clienti 92 in versione GT (quella ‘normale’) e 31 in allestimento SS, alle quali occorre aggiungere un piccolo lotto di auto rimaste in giacenza e successivamente rilevate e commercializzate a nome proprio dalla tedesca Dauer. Alla resa dei conti, e con gli occhi di oggi, la Ferrari F40 si prende una bella rivincita: produzione (e vendite) da moltiplicare per 10, utili di conseguenza. Ma questa è un’altra storia…

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