Colpo di coda: le più belle racecar Anni ’60 e ’70 (2)

Colpo di coda: le più belle racecar Anni ’60 e ’70 (2)

Nel 1961 Zagato sega via il posteriore dell’Alfa Romeo Giulietta SZ Coda Tonda e crea la ‘Coda Tronca’. Lo fanno anche la Ferrari 250 GTO (1962), la 250 ‘Breadvan’ e la Maserati 151 (’63). Nella metà della decade la filosofia inizia a cambiare e i posteriori si allungano in senso contrario al moto. Dal ’68 in poi il Mondiale Sport è un trionfo di code lunghe. Ecco una sintesi delle più belle tra il 1966 e il ‘73.

Porsche 907 LH

Porsche 907 LH

PORSCHE 907 LH 1967. A metà Anni ’60 le Porsche 904 e 906 vincono solo nelle loro classi. Parte il progetto per la vittoria assoluta alla 24 Ore di Le Mans ’67. Il nuovo motore boxer otto cilindri Tipo 771 ha un buon potenziale ma serve più sviluppo per farlo durare ‘un giorno’ al massimo. Si parte dal telaio della 910 e si va alla ricerca dell’aerodinamica perfetta per i circuiti veloci. Ferdinand Piëch decide di lavorare sull’efficienza. Gli studi in galleria del vento producono una carrozzeria piccola, con una greenhouse molto bassa e profilata, musetto molto compatto. Viene scelto il boxer due litri della 911: è ‘pesantuccio’ ma robusto. Il nuovo tipo 907 ha un ottimo coefficiente aerodinamico ma non brilla per stabilità. All’appuntamento di Le Mans le 907 hanno una livrea con un lungo volume di coda come le 906 LH. La corsa delle 907 Coda Lunga prende il via sotto il sole nonostante la speranza fosse stata la pioggia. Le Porsche non possono niente contro le Ford MK IV ma sul rettifilo Hunaudiéres volano a quasi 306 km/h. Un esemplare conclude al quinto posto assoluto.

Porsche 908 ‘Flunder’

Porsche 908 ‘Flunder’

PORSCHE 908 LH 1968, 908/02 FLUNDER’ 1969. Dopo la fine della 24 Ore di Le Mans ’67 cambiano le regole del Mondiale Sport: per il ’68, in Gruppo 6 sono ammessi solo motori fino a tre litri. Lo scenario è favorevole: Ferrari non partecipa al campionato per protesta, Ford sviluppa la P68 ma è poco affidabile, Porsche ha già Il boxer otto cilindri 2.2. Alla 24 Ore di Daytona le ‘vecchie’ Porsche 907 LH trionfano con un arrivo in parata: prima, seconda e terza. La 908 debutta alla Mille Chilometri di Monza. È in configurazione Coda Lunga, il layout ideale per i lunghi rettifili della Brianza. Non è ancora perfetta e ottiene ‘solo’ il terzo posto. Alla 24 Ore di Le Mans (spostata a settembre per il caos politico di Parigi), partecipano quattro Porsche LH: tre 908 e una vecchia 907. La 908/1 è piccola, compatta e iper-slanciata: musetto minuto, coda infinita e una piccola ala sorretta da due supporti per spingerla a terra. Tra problemi e squalifiche solo quest’ultima arriva in fondo, peraltro seconda. Nel ’69 le energie sono per la grandiosa 917 ma lo sviluppo della 908 continua. La Coupé I° serie viene trasformata e aggiornata nella 908/02 con carrozzeria Spider, più leggera di un centinaio di chili: vince la BOAC 500 di Brands Hatch, la Targa Florio e la Mille Chilometri di Spa. Al Nurburgring debutta una versione speciale, la 908/02 ‘Flunder’ con un design più evoluto: forma più pulita, linea di cintura più alta, abitacolo più protetto. A Le Mans la Flunder diventa Langheck, cioè una versione con coda lunga con linea più profilata e pinne verticali all’estremità posteriore. Affidata a Siffert/Redman la n.20 si deve ritirare ma ricompare l’anno dopo con il n.27 (Marko/Lins) e conquista un ottimo terzo posto finale.

Alfa Romeo 33/3 Le Mans

Alfa Romeo 33/3 Le Mans

ALFA ROMEO 33/2 1968-73. Nel 1965 l’Autodelta si stabilisce a Settimo Milanese, diventando ufficialmente una società del gruppo Alfa Romeo. Carlo Chiti rimane a capo della struttura che diventa celebre coi successi della Giulia Sprint GTA, che vince in tutto il mondo. Ma non è tutto: l’Autodelta vuole compiere un altro grande salto, quello nella categoria prototipi con una nuova vettura fresca di progettazione, la Tipo 33. L’esordio avviene il 12 marzo ’67 con una vittoria in salita a Fléron in Belgio. Il resto di stagione resta in sordina per continuare lo sviluppo. Durante l’inverno nasce la T33/2: design evoluto, telaio migliorato. Alla 24 Ore di Daytona ’68 le Porsche 907 arrivano in parata (1°, 2° e 3°), ma le 33/2 dell’Autodelta sono 5°, 6° e 7°, risultato che consegna loro la denominazione ‘33 Daytona’. Alla Targa Florio Galli e Giunti arrivano al 2° posto e alla Mille Chilometri del Nurburgring al 5° con una 33/2 2.5. Ai primi di aprile, nei test per Le Mans, partecipa per la prima volta la 33/2 Coda Lunga: è un coupé con tetto rimovibile, con un lungo volume di coda, un enorme cofano incernierato sul tetto; con pinne verticali e laterali. Le tre 33 Coda Lunga vetture dell’Autodelta n. 38, 39 e 40 conducono una gara regolare che porta il 4°, 5° e 6° posto. La 33/2 conclude il Mondiale al 3° posto. La stagione ’69 è identica (3° piazza), ma la nuova 33/3 di tre litri e telaio monoscocca non stupisce, anzi: vince solo gare minori e a Le Mans tre esemplari Coda Lunga (35, 36 e 38) con tetto aperto si ritirano. Nel ’70 la 33/3 barchetta punta sull’affidabilità. A Le Mans un esemplare sale fino al 2° posto, ma alla 18esima ora abbandona. Nel ’72 partecipano tre 33 Coda Lunga, n. 17, 18 e 19; la n.18 fa un ottimo 4° posto.

Plymouth Roadrunner Superbird (foto: Mecum)

Plymouth Roadrunner Superbird (foto: Mecum)

PLYMOUTH ROADRUNNER SUPERBIRD 1970. Pensata per vincere la Nascar 500, è una delle automobili più strane mai prodotte: veicolo per cui l’aggettivo ‘audace’ è un enorme eufemismo. Viene costruita nell’epoca in cui il pilota Richard Petty è il dominatore della serie, un vero eroe nazionale. È l’apoteosi del pensiero americano per design, meccanica e aerodinamica. È estrema da qualsiasi direzione la si osservi: un ‘musone infinito’, un colossale V8 Chrysler da 7,2 litri con tre carburatori doppio corpo, circa 400 cv, trazione posteriore, oltre 1700 chili di peso. E alla fine della sua lunghissima coda quell’enorme alettone ad arco che umilia l’Arc de la Défense di Parigi. 

Colpo di coda: le più belle racecar Anni ’60 e ’70 (1)

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2 commenti su “Colpo di coda: le più belle racecar Anni ’60 e ’70 (2)”
  • Alberto Spriano ha scritto:

    L’innovazione aerodinamica più importante alla fine degli anni ‘60 fu l’alettone posteriore fissato ai portamozzi, dove dovrebbe essere ancor oggi.
    Il Gran Premio di Spagna del 1969 ne decretò la fine. Da allora, tutte le ali posteriori venendo ancorate al corpo vettura e la FIA ne decretò sia le misure che l’altezza minima.

    Negli anni ‘70 comparve come un ponte che unì le bicode delle can-am e dei prototipi: l’alettone.

    Le bicode erano diventate i supporti dell’alettone posteriore, tenuto il più lontano possibile dai moti turbolenti della corrente fluidodinamica.

    Ma l’innovazione aerodinamica più importante in coda, avvenne sugli alettoni posteriori, nei primi anni ‘70, con il celeberrimo flap di Gurney.

    Dan Gurney nel 1971 applicò il trovato d’Ingegno brevettato da E.F. Zaparka del 1931 sulle auto della sua squadra per aumentare la trazione e per migliorarne la maneggevolezza.

    Il Gurney Flap (battezzato Gurney o wickerbill negli Stati Uniti) era un profilo di alluminio ad angolo retto rigidamente imbullonata o rivettata al bordo d’uscita dell’alettone per aumentare la deportanza.

    La leggenda narra che nel 1971, Dan Gurney e il suo team AAR stavano testando la nuova vettura USAC a Phoenix, prima della prima gara della stagione su quel circuito.
    La vettura era troppo lenta e sembrava non esserci rimedio.
    Notti insonni per pensare come migliorare, cosa fare?
    Verso la fine del terzo e ultimo giorno di test, Bobby Unser spazientito per la lentezza della vettura affrontò a muso duro Dan Gurney per trovare una soluzione.
    Dan Gurney con le spalle al muro, si ricordò di aver visto Richie Ginther che stava sperimentando con successo degli spoiler sulla sua Ferrari con coda alla Wunibald Kamm risvoltata. Non sapendo più cosa fare, provò a vedere cosa sarebbe successo fissando un profilo a bandella, un piccolo spoiler, lungo il bordo d’uscita dell’alettone.

    In 45 minuti il primo Gurney Flap venne realizzato ed attaccato all’ala posteriore dell’auto.

    Bobby Unser uscì di nuovo dai box, un paio di giri dopo era ancora più lento di prima.
    Unser entrò ai box e chiamò Dan Gurney e gli chiese con calma se c’era qualcuno in giro oltre a loro due.

    Non appena furono soli, Bobby Unser svuotò il sacco; il posteriore era così ben piantato che la macchina stava spingendo in sottosterzo, da qui i tempi sul giro scadenti. Tutto quello che dovevano fare era ripristinare l’equilibrio aerodinamico aggiungendo più carico aerodinamico all’avantreno e l’auto sarebbe stata trasformata.
    Eccome, si trasformò.

    Da allora il bilanciamento Lift e Drag lo si ha con una semplice, ma molto efficace, appendice aerodinamica: il Flap di Gurney, calibrata alla geometria del profilo alare su cui viene installato, a fronte di un piccolo aumento di resistenza (drag) è in grado di riuscire ad aumentare notevolmente l’effetto deportante dell’alettone.
    Una bandella sul bordo d’uscita quasi o del tutto perpendicolare alla superficie su cui è applicato.
    Il Gurney Flap è installato in corrispondenza del bordo d’uscita dell’ala stessa, in quanto l’intera sua funzione viene svolta in quel preciso punto.
    La sua altezza è generalmente non più del 2% dell’altezza della corda alare media.
    Il Gurney Flap non fa altro che rallentare il flusso d’aria che impattando l’appendice sul bordo d’uscita dell’ala subisce un’ulteriore compressione che aumenta la pressione statica sulla superficie superiore dell’ala. La pressione sulla superficie superiore dell’ala è maggiore della pressione statica all’uscita, ottenendo così l’aumento dell’effetto deportante.

    Visivamente, se l’aria fosse colorata, vedremmo l’influenza che Gurney Flap è in grado di generare, all’uscita dell’ala: due vortici controrotanti che riducono localmente la pressione, risucchiando la vena fluida a monte e garantendole l’attaccamento alla superficie. In pratica è in grado di evitare, il distacco della vena fluida anche con grandi angoli di attacco.

    Affinché il flap di Gurney sia efficace, deve essere montato sul bordo di uscita perpendicolare alla linea di corda del profilo alare o dell’ala.

    Ricerche aeronautiche hanno dimostrato che l’altezza del Gurney Flap deve essere dell’ordine dello spessore dello strato limite locale.

    Per i profili alari subsonici, un Flap di Gurney aggiuntivo aumenta la pressione sulla superficie a monte del Flap di Gurney, che aumenta la pressione totale della superficie inferiore. Allo stesso tempo, una lunga scia a valle del lembo contenente una coppia di vortici controrotanti può ritardare o eliminare la separazione del flusso in prossimità del bordo di uscita sulla superficie superiore. Di conseguenza, viene aumentata l’aspirazione totale sul profilo alare.
    Per i profili alari supercritici, il miglioramento della portanza del Flap di Gurney deriva principalmente dalla sua capacità di spostare la pressione sulla superficie superiore a valle.

    Come Colin Chapman dimostrò, l’innovazione nel motorsport è pura intuizione empirica. Il genio è intuire.
    I regolamenti attuali impediscono tutto questo, l’ultima grande intuizione fu il doppio diffusore della Brawn Gp.
    Oggi manca del tutto, quell’audacia necessaria a trovare e provare soluzioni geniali.
    Formula 1 e prototipi Le Mans perseguono la stessa ricerca.
    Quella dettata dalla dittatura dei regolamenti.
    Una dittatura che funesta il genio, l’intuizione e la creatività.
    Questo è oggi il motorsport.
    La fine dei sogni.

  • Alberto Spriano ha scritto:

    M8D, la Batmobile, l’ultima di Bruce.
    All’anno 1970 risale l’epopea che celebrò McLaren e che pose fine alla vita terrena di Bruce a Goodwood mentre provava la nuova M8D per il campionato Can-Am, il ricco campionato Canadian-American Challenge Cup riservato a vetture Sport biposto gruppo 7 che si disputava negli Stati Uniti e in Canada.
    La M8D fu sviluppata per la stagione 1970 dopo le esaltanti vittorie del “The Bruce and Danny Show” nel 1969 con la M8B.
    Il nuovo regolamento aveva bandito gli alettoni alti, la M8D era così dotata di una coda inedita, un alettone basso fissato alle due pinne diventava parte integrante della carrozzeria. Proprio per questa coda bipiannata collegata all’alettone che la caratterizzava venne ribattezzata Batmobile.
    Il motore Bolthoff, un Chevrolet V8 di 7.620 cc erogava 670 CV a 6.800 giri con una robusta coppia motrice di 810 Nm per 704 kg. di peso distribuito al meglio grazie al transaxle con il cambio Hewland LG500 MkII.
    Della Batmobile di Bruce furono presentate più versioni diverse evoluzioni del Chevrolet V8 a due valvole per cilindro, distribuzione ad aste e bilancieri con concetti di aspirazione a canne d’organo spaiate.
    Da quella di Knutson da 8.095 cc che erogava 740 CV, a quella di Reynolds, da 8.390 cc con 800 CV, che non reggeva le 200 miglia di gara.
    A seguito della morte di Bruce, fu Dan Gurney ad affiancare Hulme ed in seguito Peter Gethin.
    La stagione 1970 si articolò su 10 gare. A fine stagione, Hulme dominò il campionato Can-Am con 122 punti, Gethin fu terzo con 56 e Gurney settimo con 42.
    La serie Can-Am era il meglio perché vedeva la partecipazione dei migliori piloti, regole minime per facilitare creatività, innovazione e per aumentare la velocità. I premi erano i più ricchi mai visti.
    Il risultato fu una competizione all’ultimo respiro, velocità mai raggiunte.
    Le Can-Am erano le vetture più veloci del pianeta, compresa la Formula 1 e lo spettacolo era stellare.

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