Pio Manzù. La mostra, un mito.

Pio Manzù. La mostra, un mito.

Impara l’arte. Sì perché Pio Manzoni, in arte Manzù, era il figlio dello scultore Giacomo. Dal padre eredita la voglia di rappresentare il mondo in tre dimensioni. Ma la forma di espressione di quegli anni, la creatività di artisti e sognatori, non è più roba da pinacoteche e gallerie. No, gli artisti di quell’Italia, le loro opere le espongono in vetrina, sugli scaffali dei grandi magazzini. O nelle concessionarie. Dal dopoguerra in poi, infatti, il Bel Paese di Michelangelo e Leonardo si riscopre terra anche di stilisti (perché una volta i designer si chiamavano così). Nato nel 1939, Pio comincia col disegnare oggetti, come il portapenne Kartell (così futuristico da finire sulla scrivania del film Spazio 1999 del ’77) o l’orologio che anticipa di anni la spensierata semplicità dell’Ikea. Per non parlare della Parentesi, aperta (anzi firmata insieme a Castiglioni) e mai chiusa: una delle lampade più iconiche della storia del disegno industriale. 

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SCULTURE SEMOVENTI. Intanto a Torino qualcuno lo nota. Uno che della funzionalità aveva fatto la propria cifra: Dante Giacosa. Siamo alla fine degli Anni ’60, e c’è aria di rivoluzione culturale nell’aria. Ma basta con le regole vuol dire anche stop ai canoni di bellezza che furono. Diciamocelo, le forme rotonde, da quelle della Loren a quelle della 500, hanno stufato. La gente sogna le Bardot, le Vitti… le Bond Girl. Nel frattempo Manzù, qualcosa per farsi notare dal mondo delle macchine, l’aveva fatto. Fondando Autonova insieme a un manipolo di rivoluzionari del design come Fritz Bob Busch e Michael Conrad. Per questo quando in Fiat decidono di mandare in pensione il cinquino si affidano a Pio. Il rivoluzionario che, con design da salto carpiato, miniaturizza gli stilemi del lusso (e dell’esotico) incastrandoli in una macchina a portata di operaio. 

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LA 126, UNA MUSCLE CAR PER TUTTI. La piccola utilitaria nasce proprio rispondendo alla stessa domanda che fece produrre la 500 (Giacosa infatti a suo tempo si era chiesto: “Ma perché le macchine popolari devono essere brutte?”. E la risposta fu la versione in scala ridotta di una Cadillac, appunto la 500 tutta cromo e eleganza che conosciamo). Ma adesso alla gente non bastava più semplicemente spostarsi, voleva farlo con brio. Almeno estetico. Ecco perché Manzù disegna una muscle car in miniatura, una piccola dall’aspetto sportivo: passaruota allargati, prese d’aria posteriori e faccia da dura. Un po’ per quello sguardo squadrato (basta coi fari tondi), un po’ per quella linea del cofano a conchiglia che sa di visierino (e che rende popolare un dettaglio di lusso già apprezzato su Range Rover e Saab 900). 

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LA 127, E LA VENDETTA DELLA 500. Niente fax, figuriamoci email o Whatsapp. Allora se volevi far vedere a Torino una maquette, il modello abbozzato di una macchina che sarà, dovevi portarla di persona. Ecco cosa ci faceva sulla Milano-Torino quel maledetto 26 maggio 1969. Manzù stava guidando la 500 della moglie per far vedere la sua ultima creatura, la 127. Tre porte, look da coupé, cofano a conchiglia. Un saggio di bravura, destinato a diventare l’ultimo. Purtroppo. Quando venne ritrovato nel fosso, si pensò di tutto: erano gli Anni di Piombo e la dietrologia era lo sport nazionale. Servizi segreti deviati, i soliti americani, i russi. Ma la verità che nessuno disse è che Pio aveva voluto sfidare un nemico ancora più pericoloso. Lui che con le sue macchine aveva semplicemente voluto portare la rivoluzione del design alle masse (perché a far macchine strane quando sono supercar non c’è gusto), in realtà aveva sottovalutato il nemico. Perché le macchine, a volte, lo sono. Specie se dive assolute come la 500, una star capace di capricci e gelosie. Ma soprattutto di vendette feroci: come questa con cui gli fece pagare l’affronto di averla deposta dal trono. Ma per fortuna la rivoluzione non si è fermata. E gli oltre 5 milioni di 127 prodotte (e vendute nel mondo) lo dimostrano. 

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Un commento su “Pio Manzù. La mostra, un mito.”
  • Alberto Spriano ha scritto:

    Nome in codice G31, la piccola Autobianchi coupé che non fu.

    Non si può dimenticare Pio Manzù, l’uomo della svolta stilistica di Fiat e le sue piccole vetture sportive a motore posteriore centrale..

    Pio avrebbe potuto essere ricordato come il figlio del celebre scultore Giacomo Manzù, quello del “Cardinale seduto” del Getty Museum di Los Angeles e di quei Cardinali dalla forma sempre più rigorosa ed astratta fino a diventare architetture nello spazio per la ricerca formale sempre più geometrica e pura.

    Così non fu. Così non fu nonostante la sua breve esistenza.

    Pio Manzoni all’anagrafe, raccolse il cognome d’arte del padre: Manzù.

    Per portare quel peso devi essere un genio artistico, altrimenti ne paghi le conseguenze.

    Pio Manzù era più di un genio artistico. Innovatore come oggi si definiscono gli uomini dal pensiero laterale.

    Pio fu in grado di innescare quel cambiamento di stile che mancava in Fiat e in Europa.

    Lo intuì Dante Giacosa che avvertì in lui, l’uomo del cambiamento epocale.

    Pio studiò disegno industriale sulle verdi colline di Ulm, alla “Hochschule für Gestaltung”. L’istituzione accademica discesa dal mitico Bauhaus.

    Sulle verdi colline di Ulm vennero creati i prodotti Braun. Razionalismo, funzionalismo ed ergonomia, furono i principi imprescindibili.

    Principi che caratterizzeranno tutti i progetti di Pio Manzù.

    Dalla Fiat 127, all’impostazione che diede alla discendente della Fiat 500 di Dante Giacosa, la Fiat 126 di Sergio Sartorelli, al City Taxi, al ridisegno con Michael Conrad dell’Austin Healey 100 per il concorso di “Revue Automobile”, alla NSU Autonova GT e FAM con Michael Conrad, fino a questa coupé dalle linee sportive pure nel segno di Autobianchi, presentata al Salone dell’Automobile di Torino del 1968.

    L’Autobianchi Coupè, nome in codice G31 rappresentò il progetto di una vettura sportiva di valore tecnico con un design sportivo essenziale e rigoroso, di costo contenuto, grazie alla condivisione meccanica con altri modelli di larga serie.

    La forma aerodinamica e profilata della G31, bassa un metro, era racchiusa in più di quattro metri per una larghezza superiore ai 150 cm.

    Fari a scomparsa e cinque branchie posteriori sulle fiancate per il raffreddamento del destinato bialbero Lampredi da 1.6 litri della Fiat 124 collocato posteriormente in posizione trasversale centrale.

    Trazione ovviamente posteriore, sospensioni a ruote indipendenti, freni a disco sulle quattro ruote e ruote in lega leggera Cromodora con pneumatici 175R13.

    In coda, gruppi ottici allungati, lunotto, come si conveniva, a listelli orizzontali, spoiler sollevabile e il doppio terminale di scarico centrale.

    Ovviamente fece scalpore, ma non bastò.

    La coupè di Pio Manzù, nome in codice G31, non vide mai la strada. Ma qualcosa accadde e non a caso,

    L’anno dopo, l’anno della scomparsa di Pio, avvenuta il 26 maggio 1969 al casello autostradale di Brandizzo, Autobianchi presentò a novembre al 51° Salone dell’Automobile di Torino quell’idea di sportiva per tutti, in forma di barchetta a cuneo deportante ed incidente: la Bertone Runabout su pianale A112, uno dei tanti capolavori di Marcello Gandini e nel 1972, finalmente arrivò la piccola sportiva Fiat con meccanica condivisa con la Fiat 128, l’indimenticata X1/9.

    Della Autobianchi Coupè che non fu e del progetto G31, iniziali di Giacosa, oggi qualcosa però resta.

    Guardate quei sedili e confrontateli con la poltrona Manzù. La “poltrona fisiologica” con il sistema ammortizzante a balestra, un sedile automobilistico sportivo, montato su una struttura in alluminio a tubo centrale da cui dipartono le cinque gambe a razze equidistanti.

    Un capolavoro di design intramontabile.

    Per capire l’importanza del pensiero di questo designer internazionale è stata istituita la Fondazione Centro Studi e Archivio del lavoro e della vita di Pio Manzù presso la Fondazione Pio Manzù, Viale Giulio Cesare 29 a Bergamo.

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